La prima parte della conversazione culturale sulla Grande Guerra si è basata sull’analisi, da parte di Gianni Aiello sui nuovi documenti, frutto di nuove e particolareggiate ricerche archivistiche sulle presenze dei
prigionieri austro-ungarici sul territorio calabrese e del loro uso al di fuori dei luoghi di detenzione. La seconda parte della giornata di studi ha visto l’intervento di Nino Megali che ha relazionato su “1918-2018: il Centenario della Grande Guerra”. Con l’inizio del 1918 – esordisce Megali - l’Europa era al collasso, dopo più di tre anni di guerra che aveva già causato milioni di morti tra i soldati e ridotto alla fame e alla miseria molte popolazioni. Tutti i belligeranti da una parte e dall’altra avevano affrontato il conflitto sperando in una facile e immediata vittoria. La speranza per gli Alleati si era rafforzata quando l’America scese in guerra nell’aprile 1917, tanto che un ammiraglio inglese telegrafò al New York Times: “ Gli Stati Uniti sono destinati a essere il fatto decisivo della guerra mondiale”. Un uguale ottimismo non c’era in George Riddell, amico di Lloyd George, primo ministro e ricordato come “l’uomo che vinse la guerra” che confidò a Winston Churchill: “Se la guerra va avanti per altri dodici mesi, a forza di annientare la Germania finiremo per annientare noi stessi”. Ma il politico conservatore di rimando: “Dobbiamo continuare a batterci fino alla fine. Non saprai
mai quando i tedeschi finiranno per crollare”. La Francia non si era ancora ripresa dalla furiosa battaglia del fiume Aisne e nel suo interno doveva anche far fronte alla propaganda pacifista dei vari intellettuali come Romain Rolland e Henri Barbusse. Per fortuna nel novembre 1917 tornò a occupare la scena Georges Clemenceau, in qualità di primo ministro e ministro della Guerra, soprannominato il “Tigre”. La sua presenza restituì fiducia al paese e i soldati lo sentirono vicino a loro perché si faceva vedere anche nelle trincee. Fu inflessibile con i traditori. “Niente più campagne pacifiste, niente più macchinazioni con i tedeschi. Né tradimenti, né mezzi tradimenti: guerra, nient’altro che guerra”. Pochi giorni prima dell’ascesa di Clemenceau era stata fucilata la danzatrice olandese Mata Hari (in malese “Luce del giorno”), accusata di spionaggio a favore dei tedeschi. Secondo il quotidiano Times era dotata di “un’avvenenza che sconfina nell’incredibile, con una figura dal fascino strano e dalle movenze di una belva divina in una foresta incantata”. In quanto all’Italia – come già detto in altri interventi – era entrata in guerra per l’opera dei pochi interventisti e di Vittorio Emanuele III. In Parlamento erano in maggioranza neutralisti e pacifisti. Dopo la batosta di Caporetto il Re seppe prendere in mano le redini del Paese dando l’incarico di formare il governo a V.E. Orlando e assicurando gli alleati sull’intenzione di continuare la guerra. Racconta il suo aiutante Solaro Del Borgo che incontrando il sovrano in treno, questi gli domandò: “Cosa ne pensa?”. L’aiutante rispose: “ Maestà, dopo la pioggia viene sempre il bel tempo”. “È così che si deve pensare” concluse il Re. I nemici non si trovavano in situazioni migliori. Nella battaglia delle Fiandre la Germania aveva subito gravi perdite e dopo l’inverno 1916-1917, detto “della fame” crebbe la protesta popolare per la mancanza di generi alimentari e di vestiario. Mangiavano pane composto da segatura e bucce di patata, cani e gatti. L’Austria-Ungheria si stava disintegrando e il giovane Carlo I d’Austria, succeduto al prozio Francesco Giuseppe, influenzato dalla moglie Zita di Borbone (figlia di Roberto, ultimo duca di Parma), tentò senza successo di arrivare a una pace separata. I capi militari tuttavia erano sicuri della vittoria finale, perché la Russia, dopo la Rivoluzione, era fuori dalla guerra. Ad inizio anno il presidente americano Wilson enuncia i suoi 14 punti, per arrivare alla pace mondiale, tra cui erano previsti la costituzione di uno stato polacco indipendente e la restituzione di Alsazia e Lorena alla Francia. I quattordici punti di Wilson non soddisfano alcune nazioni e tra queste l’Italia che si vede bocciate le richieste sull’Istria e la Dalmazia. Wilson non parla di autodeterminazione nazionale, ma di un “aggiustamento imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali”, ma solo per le colonie della Germania; prevedono l’autonomia, non l’indipendenza, per tutti i sudditi dell’Austria-Ungheria e dell’impero ottomano. All’inizio del 1918 su tutti i fronti non c’erano offensive massicce, ma si assisteva a sporadici combattimenti con ripetute incursioni e fughe. In Italia anche il nuovo comandante in capo Armando Diaz, consapevole che dopo Caporetto l’esercito non era pronto a vaste offensive, ordina azioni leggere di mantenimento. Le nazioni erano ormai stanche e tutte si auguravano la fine del conflitto. Ma come sosteneva l’uomo politico inglese conservatore Balfour, gli orrori della guerra non erano niente in confronto a una eventuale pace tedesca. Il Kaiser da un lato sosteneva che “la guerra è un’azione disciplinare esercitata da Dio per educare l’umanità”, dall’altra dichiarava che esisteva un complotto
mondiale contro la Germania da parte di ebrei, massoni e bolscevichi. Dimenticando – come fa notare lo storico Gilbert – che almeno diecimila ebrei e altrettanti massoni erano caduti in combattimento nelle file dell’esercito tedesco e dell’appoggio finanziario dato dagli stessi tedeschi ai bolscevichi. In quei giorni un professore tedesco rimproverò Einstein, ebreo, per la sua avversione alla guerra. E lo scienziato di rimando: “Preferisco affiancarmi al mio compatriota Gesù Cristo, le cui dottrine lei e quelli come lei considerano tanto obsolete. Mi è più facile accettare la sofferenza che ricorrere alla violenza”. Intanto in Italia c’è il raid di D’annunzio nella baia di Buccari. Con tre mas (motoscafi armati siluranti) e insieme a Luigi Rizzo e Costanzo Ciano, lancia dei siluri contro le unità nemiche. Vengono lasciate nelle acque alcune bottiglie col famoso messaggio di D’Annunzio: “ In onta alla flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile”. L’impresa ebbe largo successo in Italia nonostante non avesse ottenuto alcun vantaggio pratico. A metà giugno inizia l’ultima offensiva austriaca contro l’Italia chiamata da D’Annunzio la battaglia del Solstizio. In realtà fu ricordata come la seconda battaglia del Piave dopo quella che bloccò l’avanzata dei nemici dopo Caporetto e prima di quella finale, la terza, che portò all’armistizio. Nella battaglia con una grande offensiva gli Austriaci di Radetzky e Albrecht guadagnarono posizioni e passarono il Piave. La piena del fiume ostacola l’offensiva austriaca e gli italiani riconquistano quello che avevano perduto. La mossa austriaca che avrebbe dovuto chiudere la guerra con l’Italia fallisce. Questa battaglia sul Piave dà origine alla famosa canzone La Leggenda del Piave, composta da E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta). Ai primi di luglio un autista americano diciottenne di un’ambulanza della Croce Rossa venne ferito da una granata lanciata da un mortaio austriaco mentre distribuiva cioccolato ai soldati italiani in trincea. Era Ernest Hemingway, insignito della medaglia d’argento italiana al valore militare. Secondo la versione americana lo scrittore prima di farsi curare, “prestò generosa assistenza ai soldati italiani che erano stati feriti più gravemente nella stessa esplosione e non volle essere portato via prima che essi fossero stati soccorsi”. Un’altra beffa di D’Annunzio al “nemicissimo” consiste nel volo su Vienna e nel lancio sulla capitale di quarantamila volantini con un testo italiano e altri trentacinquemila con un testo di Ugo Ojetti tradotto in tedesco. “Il destino si volge – diceva tra l’altro il primo volantino – si volge verso di noi con una certezza di ferro. È passata per sempre l’ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia e vi infetta”. E nel messaggio di Ojetti si poteva leggere: “Viennesi ! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Noi vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà”. Quello stesso giorno, 9 agosto, il generale tedesco Ludendorff diceva a un collega: “Questa guerra non possiamo più vincerla, ma non dobbiamo perderla”. Con l’estate e l’autunno cambiano le sorti del conflitto e inizia la ripresa degli Alleati. A ottobre il principe Max di Baden, nuovo cancelliere del Reich chiede l’armistizio al presidente americano Wilson. Il presidente pone come condizione l’evacuazione di tutti i territori occupati: dai tedeschi in Francia e in Belgio, dagli Austriaci in Serbia. Intanto in Italia Vittorio Emanuele Orlando visto il temporeggiare di Armando Diaz, gli invia un telegramma: “Tra l’inazione e la sconfitta preferisco la sconfitta. Muovetevi!”. Il generale decide allora di “dar corso al destino”. Nell’ultima settimana di ottobre inizia la battaglia di Vittorio Veneto rimandata per la piena del Piave. Negli stessi giorni la Germania accetta la resa senza condizioni imposta dall’America e l’Austria-Ungheria chiede una pace separata al Regno d’Italia. Il consiglio nazionale di Fiume proclama l’indipendenza della città e chiede l’ novembre le truppe italiane entrano a Trento e Trieste e a Villa Giusti viene firmato l’armistizio tra Italia e Austria-Ungheria. L’interruzione della guerra viene fissata, tra le proteste austriache, a partire dalle ore 15 del giorno dopo. Il Bollettino della Vittoria, firmato da Armando Diaz riporta, tra l’altro, “I resti di quello che fu uno dei più potenti Eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Come sostiene Mario Isnenghi in realtà: “La battaglia di Vittorio Veneto non fu la vittoria napoleonica che proclama l’agiografia nazionale. I combattimenti sul Grappa terminarono senza vinti né vincitori; il forzamento del Piave fu condotto con bravura ed efficacia, ma il suo sfruttamento in profondità fu permesso non dalla manovra di Caviglia, bensì dal collasso dell’esercito austro-ungarico”. La guerra è finita, ma lascia dietro di sé un bilancio impressionante: tra 650.000 e 680.000 morti; 450.000 invalidi, dei quali quasi 220.000 gravi 27.000 affetti da disturbi psichiatrici; 600.000 prigionieri di guerra; 500.000 colpiti da dissenteria cronica; oltre 400.000 casi di tubercolosi; più di mille affetti da malattie veneree; oltre 30.000 colpiti da colera, migliaia colpiti da tifo, scabbia, malaria e vaiolo. Dal punto di vista economico la Guerra provocò un esborso di 157 miliardi di allora. Giorno 11 novembre alle ore 11 a Parigi si sentì la prima delle centouno salve di cannone previste come segnale della fine della guerra. Tutti si fermarono per riversarsi sulle strade per festeggiare e nel pomeriggio raggiunsero l’apice. Clemenceau disse di essere stato baciato da più di cinquecento ragazze. Negli Stati Uniti ci furono celebrazioni in centinaia di città: a New York Enrico Caruso si affacciò alla finestra del suo albergo e intonò l’inno americano. All’opera di Chicago furono interrotte le prove quando un tenore entrò in scena gridando: “Fermi ! Fermi ! È stata dichiarata la pace”. L’orchestra suonò allora tutti gli inni nazionali. A Londra la folla si riversò a Trafalgar Square. Un ragazzo inglese ricordò: “Sfilammo nel giardino, in pigiama, suonando tutto quello che si poteva suonare e percuotendo tutto quello che si poteva percuotere, fosse pure un vassoio da tè”. Nell’ufficio di Churchill scoppiò un parapiglia: porte che sbattevano. Scalpiccio di piedi lungo i corridoi. Tutti abbandonavano le scrivanie, gettando penna e carte. La strada era ormai una massa ribollente di umanità. Bandiere spuntarono come per Magia”. Abbiamo per sommi capi, passato in rassegna i principali avvenimenti dell’anno, ma più importante di tutti questi quello appena citato dai libri di storia, ma che ebbe conseguenze devastanti: l’influenza spagnola. Fu – come sostiene la studiosa Laura Spinney – il principale disastro del XX secolo, più sconvolgente delle due guerre mondiali e dell’ascesa e il declino del comunismo. La malattia colpì circa cinquecento milioni di esseri umani e fra il 4 marzo 1918 e il marzo del 1920 uccise tre cinquanta e cento milioni di persone. Certamente alla sua diffusione furono determinanti i festeggiamenti avvenuti dopo la fine del conflitto quando milioni di persone scesero per le strade e si baciavano e si abbracciavano. Questo morbo – sempre secondo la studiosa Laura Spinney – ha influito sul corso della Prima Guerra mondiale: ha contribuito allo scoppio della seconda per aver a messo fuori gioco il presidente americano Wilson nel 1919 durante la conferenza di pace; ha avvicinato l’India all’indipendenza e il Sudafrica all’apartheid; ha spinto la Svizzera sull’orlo della guerra civile; ha stimolato la nascita dell’assistenza sanitaria universale e della medicina alternativa oltre ad aver accelerato i cambiamenti avvenuti nella prima metà del Novecento. Per convenzione il paziente zero viene considerato il cuoco militare Albert Gitchell che la mattina del 4 marzo del 1918 si presentò nell’infermeria di Camp Funston, in Kansas, accusando mal di gola, febbre e mal di testa. Il cuoco probabilmente non sarà stato il primo a contrarre l’influenza, ma non sapendo di più, per comodità, è individuato come primo caso. Poi, in poche ore l’infermeria si trovò davanti altri cento casi e nelle settimane successive il numero dei malati si moltiplicava con tale velocità da rendere impossibile la sistemazione di tutti. Dopo un mese era già epidemica nel Midwest, dove i soldati si imbarcavano e sui porti francesi dove sbarcavano. Da lì si estese a tutta la Francia, poi passò alla Gran Bretagna, Italia e Spagna dove si ammalò il re Alfonso XIII insieme al primo ministro e ai membri del suo governo. Questa fu solo la prima ondata dell’influenza che si manifestò con i soliti sintomi; mal di gola, mal di testa, febbre, e che portò la guarigione della quasi totalità degli ammalati. La situazione si aggravò quando la malattia tornò ad agosto. Le complicazioni, tra cui la polmonite, finirono per provocare la maggior parte dei morti. Oltre le difficoltà respiratorie, sugli zigomi comparivano macchie scure che si estendevano da un orecchio all’altro, “tanto che è difficile distinguere gli uomini di colore dai bianchi”, come scrisse un medico. Il nero compariva anche alle mani, piedi e unghie, arti, addome e busto. Cadevano i capelli e i denti. Furono segnalati casi di suicidio e i pazienti si buttavano dalle finestre degli ospedali. Quando l’influenza arrivò in Spagna, giustamente avevano intuito che fosse arrivata da fuori. Ma non sapevano che nei paesi belligeranti le notizie relative all’influenza erano censurate per non demoralizzare la popolazione (i medici francesi la chiamavano misteriosamente maladie onze, malattia undici). L’Ispettore generale della Sanità spagnolo, annunciò di non aver ricevuto notizie della presenza di quella malattia nel resto d’Europa. Da questo prese poi il nome di “spagnola” e tale nome rimase pur trattandosi di un clamoroso falso storico. Allora gli spagnoli cercarono un capro espiatorio. A Madrid nel maggio 1918 si rappresentava una commedia, “La canzone dell’oblio”, che conteneva una canzonetta orecchiabile dal titolo “Il soldato napoletano”. Gli spagnoli chiamarono il morbo col titolo di questa canzone. Anche gli altri paesi si scambiarono accuse sull’origine del morbo. Il Senegal la chiamò influenza brasiliana. In Brasile divenne la tedesca. I danesi la chiamarono mele del sud. I polacchi la malattia bolscevica e i persiani diedero la colpa ai britannici. In Giappone misero sotto accusa i lottatori perché il primo focolaio si sviluppò in un torneo di lotta giapponese, e fu chiamata “influenza del sumo”. I medici tedeschi ebbero l’ordine di minimizzare e la chiamarono pseudo influenza, quasi si trattasse di malati immaginari. Le autorità spagnole intuendo che la diffusione della malattia avveniva nei luoghi affollati vietarono gli assembramenti. Ma il vescovo di Zamora la prese come una misura contro la Chiesa e ribadì che la malattia dipendeva “dai nostri peccati, dalla nostra ingratitudine, a causa dei quali si è abbattuto su di noi il braccio vendicatore della giustizia eterna”. Molti i personaggi illustri colpiti dal morbo: alcuni morirono, altri guarirono. Tra i primi il poeta Guillaume Apollinaire. Di sangue italiano e polacco, Apollinaire, come in Francia si fece chiamare, volontario nel 1914, e per questo ricompensato con la cittadinanza francese, fu ferito al capo nel 1916, subì una trapanazione del cranio, per poi morire di “spagnola”. Racconta il suo amico poeta svizzero Blaise Cendrars, che durante il funerale”la processione venne disturbata da una folla rumorosa che celebrava l’armistizio, uomini e donne che agitavano le braccia, cantavano, ballavano, si baciavano, urlavano forsennatamente il famoso motivetto della fine della guerra: “No, non devi andare Guillaume. No, non devi andare …”. Il motivetto era ironicamente rivolto al Kaiser sconfitto. Morirono anche Edmond Rostand, Max Weber, Egon Schiele. Riuscirono a guarire Kafka, Hammett, Pound, il Mahatma Gandhi, Franklin D. Roosevelt. Sigmund Freud perse la figlia, Kipling il figlio così come Conan Doyle – creatore di Sherlock Holmes – e questo lo spinse a diventare un seguace dello spiritismo. Questa fu la pandemia spagnola. E allora perché se ne parla così poco ? Come spiega sempre nel suo saggio la studiosa sopra citata, le guerre “con le loro dichiarazioni, le loro tregue, i loro atti di incredibile coraggio” entrano nella storia; una pandemia influenzale, invece non ha un inizio o una fine precisa e nessun eroe definito.